4.

4. La Natura possiede al massimo grado la capacità di discriminazione meccanica, infatti in sua assenza qualsiasi processo teleologico risulterebbe impossibile. Il viticcio che si protende dritto nell'aria, a contatto con una fune, un paletto di legno o lo stelo di una pianta immediatamente lo afferra come se avesse le dita e muta la propria crescita rettilinea in un movimento a spirale, sinuoso, avvolgendosi strettamente attorno al supporto. Che cosa provoca il cambiamento? Che cosa induce il riconoscimento del supporto e della possibilità di un nuovo modo di muoversi? L'istinto del viticcio che non è sostanzialmente diverso dall'istinto del neonato che afferra il seno della madre o dagli istinti dell'uomo nei suoi bisogni e nelle sue azioni più meccaniche. Vediamo il 'loto della luna' aprire i propri petali per salutare la luce lunare e richiuderli all'arrivo del giorno. In che modo questo movimento discriminante differisce dalla reazione istintiva che fa ritrarre la mano dal contatto con il fuoco o dalla sensazione di disgusto e di irritazione che ci fa allontanare meccanicamente da una scena orribile, o ancora dalla reazione mentale di chiusura e rifiuto di un'idea o un'opinione sgradevole? A livello intrinseco non sembra esserci alcuna differenza, ma c'è una diversità di circostanze. L'azione del loto non è eseguita con consapevolezza mentale, mentre le altre azioni sono accompagnate da questo elemento estremamente importante. Riteniamo erroneamente che non esista volontà nell'azione del viticcio e del loto e nemmeno discernimento. Al contrario esiste una volontà , ma non una volontà mentalizzata; esiste un potere di discernimento, ma non un discernimento mentalizzato. Diciamo che si tratta di qualcosa di meccanico, ma capiamo veramente ciò che stiamo dicendo? E adoperiamo così altri termini, chiamando forza la volontà e reazione naturale o tendenza organica il discernimento. Tutti questi termini sono solo maschere che nascondono un'identità intrinseca. Anche se non potessimo proseguire nel nostro ragionamento avremmo già compiuto un enorme passo in avanti; infatti già concepiamo ciò a cui diamo il nome di Natura come dotato, contenente o coincidente con una grande Forza o una grande Volontà, protesa verso un grande fine e verso un complesso innumerevole di scopi incidentali, tendente a raggiungerli attraverso fantasiose invenzioni, adattamenti, aggiustamenti e stratagemmi, per mezzo di un'infallibile capacità di discernere ed ampiamente capace di compiere il suo lavoro così complesso. L'intelligenza umana è solo un aspetto limitato ed inferiore di questa grande Forza, guidato ed usato da essa, al servizio dei suoi scopi anche quando sembra ostacolarli. Potremmo sempre negare ad un tale Potere la facoltà dell'Intelligenza, dato che non mostra segni di consapevolezza mentale e non utilizza per il proprio lavoro un'intelligenza di tipo umano, ossia mentale, ma la nostra obiezione sarebbe soltanto una distinzione 30 metafisica. Praticamente, ponendoci sul piano della vita e non su quello del pensiero astratto, possiamo ritenere che i risultati di questo potere di discriminazione privo di intelligenza siano gli stessi che sarebbero raggiunti da un'Intelligenza universale e che gli scopi ed i mezzi tipici della volontà meccanica siano identici a quelli che verrebbero scelti da una Saggezza Onnipotente. Giungendo ad una simile conclusione, non è forse la stessa Ragione a chiederci di ammette nella Natura o dietro ad essa la presenza di un'Intelligenza universale e di una Saggezza Onnipotente? Sei i risultati sono quelli che proprio quei poteri sarebbero capaci di creare, non dobbiamo ammettere l'esistenza di tali poteri come cause dei risultati stessi? Che cos'è più Razionale? Ammettere che risultati intelligenti sono prodotti dall'Intelligenza o pensare che siano prodotti da una Macchina cieca, inconsciamente protesa verso la perfezione? Ammettere che la comparsa dell'intelligenza nell'umanità è dovuta ad una specializzazione di un'intelligenza segreta che permea l'universo o ritenerla il risultato di una Forza sostanzialmente priva del principio di Intelligenza? Giustificare il paradosso dicendo che le cose sono in un determinato modo perché ciò è nella loro natura è prendersi gioco della ragione, perché questo discorso non ci fa avanzare minimamente sulla strada della ricerca delle cause; sappiamo che le cose stanno così ma ne ignoriamo il perché. La vera ragione della moderna riluttanza ad ammettere che la Natura è dotata di intelligenza e saggezza, o meglio è intelligenza e saggezza, è la costante associazione operata dalla mente umana tra intelligenza e saggezza da un lato e personalità cosciente di sé stessa attraverso la mente dall'altro. Riteniamo che l'intelligenza necessiti di 'qualcuno' che sia intelligente e di un io che la possieda e la utilizzi. Un attento esame della coscienza umana dimostra che questa associazione è errata. L'intelligenza ci possiede e non siamo noi a possederla, l'intelligenza si serve di noi, non siamo noi ad usarla. L'ego mentale dell'uomo è una creazione ed uno strumento dell'intelligenza e la stessa intelligenza è un attributo della Natura, che si manifesta in modo più o meno rudimentale o evoluto in tutta la vita animale. L'obiezione quindi viene a cadere. E non è tutto; la Scienza stessa, considerando correttamente l'ego un prodotto della mente, ha dimostrato che l'intelligenza non è proprietà esclusiva dell'uomo, ma piuttosto una forza della Natura, un attributo della Natura e la manifestazione di una Forza universale. Rimane ancora una domanda: si tratta di un attributo fondamentale ed onnipresente o soltanto di qualcosa che si è sviluppato e manifestato in una minoranza selezionata di opere della Natura? Ancora una volta la difficoltà deriva dal fatto che associamo l'intelligenza ad una coscienza organizzata a livello mentale. Cominciamo ad osservare ed interrogare i dati resi disponibili dalla Scienza. Prenderemo in considerazione la piante carnivore che si trovano in America. Siamo in presenza di un organismo vegetale che ha fame, 31 potremmo dire una fame inconscia, di cibo animale, che necessita di cibo animale, che progetta una trappola, allo stesso modo del ragno, che avverte il momento in cui la vittima sfiora la trappola ed immediatamente si chiude per afferrare la preda, la mangia, la digerisce e si pone in attesa di altre vittime. Questi meccanismi sono gli stessi che caratterizzano l'intelligenza mentale del ragno, alterati e condizionati soltanto dalla relativa immobilità della pianta e indirizzati solamente, per quanto ci è dato di osservare, alla soddisfazione del bisogno fondamentale. Perché dovremmo attribuire intelligenza mentale al ragno e non alla pianta? Pur essendo rudimentale ed indirizzata verso scopi estremamente specifici, sembra trattarsi della medesima Forza naturale che agisce nel ragno e nella pianta, scovando intelligentemente i mezzi per raggiungere lo scopo e coordinando l'utilizzo di tali mezzi. Se non esiste mente nella pianta, allora, in modo inconfutabile, l'intelligenza mentale e quella meccanica sono essenzialmente la stessa cosa; il viticcio che abbraccia il suo supporto, la pianta che afferra la preda ed il ragno che cattura la propria vittima sono tutte forme di un'unica Forza di azione, che possiamo rifiutarci di chiamare intelligenza, se lo vogliamo, ma che è ovviamente identica all'Intelligenza. La differenza è tra Intelligenza organizzata sotto forma di mente e Intelligenza non mentale ma capace di lavorare con una chiarezza di base più ampia, in un certo modo meno fallibile dell'azione mentale. Alla luce di queste considerazioni la concezione della Natura come Potere di Intelligenza infinita, teleologica e capace di discernimento, non organizzata ed impersonale perché superiore all'organizzazione ed all'aspetto personale diviene la più probabile, relegando la teoria meccanica al rango di mera possibilità. In assenza di certezze la Ragione ci chiede di privilegiare ciò che è probabile rispetto a ciò che è solamente possibile e preferisce una spiegazione armoniosa e naturale rispetto ad una conflittuale ed incline al paradosso. Possiamo, d'altra parte, essere certi che in questa Intelligenza e nelle sue opere, la Mente come specializzazione e la Personalità, distinte dall'ego mentale, siano del tutto assenti se non come manifestazione superficiale della Mente come sia abituati a concepirla? Siamo portati a pensare in questo modo perché riteniamo che dove non esistono manifestazioni animali di coscienza, la coscienza non può esistere e non esiste. Anche questa è soltanto un'ipotesi. Ricordiamoci che non sappiamo nulla dell'albero o della pietra se non per le loro manifestazioni esteriori di vitalità o inerzia. L'unica conoscenza di cui disponiamo intimamente è quella relativa alla psicologia umana, ma anche in quest'ambito limitato molte sono le cose su cui dovremmo riflettere profondamente prima di affrettarci a trarre conclusioni negative. Un uomo dorme, crede di dormire un sonno senza sogni, ma sappiamo che in ogni momento la sua coscienza è attiva e sogna, sogna continuamente; egli non sa nulla del proprio corpo e di ciò che lo circonda e nonostante 32 ciò il corpo svolge autonomamente tutte le operazioni necessarie alla vita. Nell'uomo svenuto o in trance si verifica lo stesso fenomeno di divisione dell'essere: la coscienza interiore attiva mentalmente è separata dal corpo che è mentalmente piatto come l'albero o la pietra, ma vitale e funzionante come l'albero. La catalessi mostra il fenomeno ancora più curioso di un corpo morto ed inerte come la pietra, privo finanche della vitalità dell'albero, e di una mente perfettamente consapevole di se stessa, dei propri mezzi e di ciò che la circonda, sebbene non più in possesso dei propri mezzi e quindi incapace di influire sulle circostanze esterne. Di fronte a tali esempi come possiamo sostenere che non c'è vita nella pietra e che non esiste mente nella pietra o nell'albero? La premessa del sillogismo con cui la scienza nega la mente all'albero o la vita alla pietra, cioè l'asserire che l'assenza di manifestazioni vitali o di consapevolezza mentale prova la non esistenza della vita e della consapevolezza mentale stesse, si rivela falsa. Emerge così, in ragione dell'unità della Natura e dell'intelligenza onnipresente in tutte le sue opere, la possibilità, e persino una certa probabilità, che l'albero e la pietra siano nella loro interezza simili ad un essere diviso, una forma non ancora penetrata e posseduta da una mente cosciente, un'intelligenza che sogna se stessa interiormente, o come nello stato catalettico, cosciente dell'ambiente circostante ma, poiché non ancora in pieno possesso dei propri mezzi (l'intelligenza nello stato catalettico è temporaneamente spodestata), incapace di manifestare segni di vita e di consapevolezza mentale o di agire energicamente sull'ambiente esterno. Non abbiamo bisogno di considerare tutto ciò come una mera probabilità perché le scoperte più recenti della psicologia lo rendono sempre più probabile e prossimo ad essere provato. Sappiamo che nell'uomo esiste una coscienza di sogno, o un sé del sonno, diverso dalla coscienza di veglia, attivo nello stordimento, sotto l'effetto di droghe, in stato di ipnosi o nel sonno; un sé che conosce cose che la coscienza di veglia non conosce, che comprende ciò che la mente di veglia non comprende e che ricorda accuratamente ciò che la coscienza di veglia non si prende nemmeno la briga di notare. Chi è dunque questo sé che apparentemente dorme nella coscienza di veglia, questo elemento che si risveglia nel sonno, dotato di un'attenzione onnicomprensiva, di una perfetta capacità di osservazione, di una memoria e di un'intelligenza tali da far apparire la nostra coscienza di veglia un sogno frammentario ed affrettato? Chiariamo subito il punto fondamentale che tale coscienza più perfetta dentro di noi non è il prodotto dell'evoluzione; non esiste nel mondo ordinario di veglia un essere capace di ricordare e ripetere automaticamente i suoni di una lingua straniera che sono chiacchiere prive di senso per la mente istruita, capace di risolvere spontaneamente problemi di fronte ai quali la mente istruita si ritira sconfitta ed esausta; 33 un essere capace di notare ogni cosa, di capire e ricordare ogni particolare. Di conseguenza questa coscienza interiore è indipendente dall'evoluzione e perciò presumibilmente anteriore ad essa. Esa suptesu jagarti, afferma la Katha Upanishad, questo è Colui che veglia in tutto ciò che dorme. La recente ricerca psicologica è ancora ad uno stadio infantile è non può dirci che cosa sia questa coscienza, ma la conoscenza ottenuta attraverso lo Yoga ci permette di asserire che si tratta dell'essere mentale interiore, signore della vita e del corpo, manomayah prana-sarira-neta. Egli è colui che guida la nostra evoluzione e fa emergere la mente dalla vita e che sta prendendo sempre maggior possesso di questo corpo umano vitale, suo mezzo e strumento, così che possa divenire ciò che ancora non è: uno strumento perfetto per l'espressione Mentale. Questo essere interiore è presente anche nella pietra e nell'albero; anche in quei dormienti qualcuno veglia, ma in quelle forme non ha ancora preso possesso degli strumenti per gli scopi della mente; può usarli soltanto per gli scopi della vita nella sua crescita o nel suo funzionamento attivo. Vediamo perciò che la psicologia moderna, prendendo le distanze dalle uniche conclusioni razionali e logiche possibili a partire dai dati a sua disposizione, sta marciando inevitabilmente, spinta dalla forza dei fatti, verso le stesse verità intuite migliaia di anni fa dagli antichi Rishi. Come vi giunsero? Non certo attraverso la speculazione, come ritengono vanamente gli eruditi, ma tramite lo Yoga. Infatti il grande ostacolo che si presenta sulla via della Scienza è la sua incapacità di entrare negli oggetti della sua indagine, la sua necessità di costruire teorie sulla base di inferenze derivanti dall'osservazione esterna e qualunque tentativo disperato e crudele di colmare la lacuna, con la vivisezione o altri esperimenti spietati, non può risolvere il problema. Lo Yoga ci permette invece di entrare nell'oggetto dissolvendo nell'osservatore le barriere artificiali dell'esperienza corporea e dell'ego mentale. Ci libera dalla presa dell'esperienza personale proiettandoci nelle grandi correnti universali; ci fa uscire dalla guaina della mente personale per renderci uno con il sé e la mente universali. Perciò gli antichi Rishi erano capaci di vedere ciò che stiamo nuovamente iniziando ad intuire vagamente e cioè che non solo la Natura stessa è Potere impersonale di Intelligenza e Coscienza infinita, teleologica e discriminante, prajna prasrta purani , ma che Dio dimora nella Natura e al di sopra di essa come Personalità universale infinita, universale nell'universo, individualizzato e contemporaneamente universale nella forma particolare, come autocoscienza che percepisce, gioisce e porta a compimento le sue opere grandi e complesse. Non c'è solo Prakriti, ma anche Purusha. Finora siamo riusciti a farci un'idea della grande forza che lavora per portarci dalla natura verso la supernatura. E' la forza di un Essere Cosciente che si manifesta in 34 movimenti e forme diverse e guida passo a passo il progresso predeterminato del nostro divenire e rivela la Volontà di Dio nel Mondo.
MAYA
Il mondo esiste come simbolo di Brahman ma la mente crea ed accetta falsi significati e scambia il simbolo per la realtà. Tale è l'ignoranza, l'illusione cosmica, l'errore della mente e dei sensi da cui il Mago stesso, il Maestro dell'Illusione, ci chiede di liberarci. Tale errata valutazione del mondo è la Maya della Gita che può essere trascesa senza abbandonare la vita attiva o l'esistenza nel mondo. Anche l'intera esistenza universale è un'illusione di Maya, poiché non si tratta della realtà ultima immutabile e trascendente, ma soltanto di una realtà simbolica, di una rappresentazione della realtà del Brahman in termini di coscienza cosmica. Tutto ciò che vediamo, o di cui siamo mentalmente consapevoli come di una realtà oggettivamente esistente, è solo una forma di coscienza. Si tratta della 'Cosa-in-sé' dapprima manifestata in termini ed idee generate da un movimento o da un processo ritmico della coscienza e poi oggettivata nella coscienza stessa, e non realmente esterna ad essa. Di conseguenza tutte le cose hanno una realtà convenzionale fissata, ma non una realtà essenziale durevole; sono solo simboli e non la realtà che rappresentano, sono soltanto strumenti di conoscenza e non la realtà da conoscere. Partendo da un altro punto di vista, possiamo dire che l'Esistenza, o Brahman, ha due stati fondamentali di coscienza: la coscienza cosmica e la coscienza trascendente. Per la coscienza cosmica il mondo è reale in quanto termine primario diretto che esprime l'inesprimibile; per la coscienza trascendente il mondo è soltanto un termine secondario ed indiretto per esprimere ciò che non può essere espresso. Dimorando nella coscienza cosmica vedo il mondo come il mio Sé manifestato; nella coscienza trascendente non vedo il mondo come la manifestazione del mio Sé, ma come una manifestazione di qualcosa che scelgo di porre in essere nella mia Autocoscienza. Si tratta di una rappresentazione convenzionale attraverso cui mi esprimo, ma che non mi vincola; potrei dissolverla ed esprimermi in altro modo. E' simile ad un vocabolo di una determinata lingua che vuole esprimere oralmente o per iscritto un concetto che potrebbe essere espresso altrettanto bene da un altro vocabolo appartenente ad un'altra lingua. Dico tiger (tigre) in inglese; potrei benissimo esprimermi in sanscrito ed usare il termine sardula; ciò non comporta cambiamenti né per la tigre, né per me, ma solo per il mio gioco con i simboli del discorso e del pensiero. Tutto ciò vale anche per Brahman e l'universo, per la 'Cosa-in-sé' ed i suoi simboli con i loro 35 significati convenzionali, alcuni dei quali sono relativi alla coscienza generale ed altri alla coscienza individuale dell'essere-simbolo. Ad esempio, Materia, Mente e Vita sono simboli generali con un significato generale fissato per Dio nella Sua coscienza cosmica, ma assumono significati individuali diversi, hanno un diverso impatto o, per così dire, si manifestano diversamente in me, in una formica, in una divinità o in un angelo. Tale percezione del valore meramente convenzionale della forma e del nome nell'universo viene espressa in termini metafisici con la formula in base alla quale il mondo è una creazione di Para Maya, l'Illusione Cosmica suprema. Quanto detto finora non implica che il mondo sia irreale o non abbia un'esistenza degna di tale nome. Nessuna delle antiche scritture dell'Induismo sostiene l'irrealtà del mondo, né tale irrealtà è la logica conseguenza della grande verità, così remota e complessa da non poter essere adeguatamente espressa in parole. Dobbiamo ricordare che tutti questi termini, Maya, illusione, sogno, irrealtà, realtà relativa, significato convenzionale, sono solo forme verbali e non devono essere prese troppo alla lettera. Sono simili al pennello che il pittore lancia contro il suo quadro nella disperazione che deriva dal non poter raggiungere gli effetti che vorrebbe creare, si tratta di pietre scagliate in direzione della verità e non della verità stessa. Ci renderemo chiaramente conto di questo quando guarderemo il Cosmo non dal punto di vista di Maya ma da quello di Lila . Alcune grande menti metafisiche, non capendo che le parole, come qualunque altra cosa, hanno solo significati convenzionali e sono simboli di una verità in sé stessa inesprimibile, hanno tratto dalle idee suggerite da queste parole conclusioni concrete e rigorose. In tal modo hanno ridotto il mondo ad un sogno miserabile e menzognero, reso ancora più odioso e privo di senso da un certo elemento di realtà alla quale è impossibile sfuggire, realtà che la parte più illuminata delle loro menti non può evitare di intuire e di ammettere almeno parzialmente. La verità delle premesse ha reso le loro dottrine un potente strumento di liberazione per anime grandi ed austere; l'errore presente nelle loro conclusioni ha afflitto l'umanità con il vangelo inutile e sterile della vanità non solo degli aspetti falsi ed insinceri dell'esistenza terrena, ma della totalità dell'esistenza terrena. Per le forme più estreme di questa visione, sia la natura che la supernatura, l'uomo e Dio, sono menzogne della coscienza, miti di un sogno cosmico, indegni di essere accettati. Il miglioramento è una vana chimera; Dio una lusinga; l'unico fine degno di essere perseguito è il perdersi in un'esistenza impersonale e trascendente. Gli adoratori di Dio, i ricercatori della perfezione umana, coloro che innalzano l'umanità dalla natura verso la supernatura, incontrano due grandi ostacoli sul proprio cammino: da una parte la tendenza ordinaria della natura a rimanere attaccata alle conquiste del passato, rappresentate dall'ebete naturalismo 36 dell'uomo pratico e mondano, dall'altra la tendenza esagerata a voler oltrepassare il simbolo, rappresentata non tanto dall'asceta che si ritira dal mondo, che dopo tutto, può farlo a pieno diritto, ma piuttosto dal pessimismo deprimente degli ignoranti che non vogliono fuggire il mondo, né, se tentassero di farlo, potrebbero innalzarsi fino alle vette dell'ascetismo, ma sono comunque imbevuti a livello intellettuale e dominati nel temperamento da queste dottrine distaccate e catastrofiche. Un'alba migliore sorgerà per l'India quando la nebbia si diraderà e la mentalità indiana, pur senza rinunciare alla verità di Maya, riuscirà ad intuire che si tratta solo di una spiegazione parziale dell'esistenza. L'esistenza terrena non è indispensabile all'essere o alla gioia di Dio, ma non per questo è vanità; né un'esistenza terrena liberata, libera in Dio, può essere considerata vana o falsa. La dottrina ordinaria di Maya non è una verità semplice, ma deriva da tre diversi livelli di percezione spirituale. La prima e più elevata è la percezione che il mondo è un insieme di simboli-coscienza dotati di un valore convenzionale; gli esseri esistono solo nell'autocoscienza di Brahaman e la personalità ed il senso dell'ego sono solo simboli e termini dell'esistenza-simbolo universale. Lo abbiamo già detto e vedremo che questa percezione non ci costringe a considerare il mondo come un mito o una convenzione priva di valore. Lo stesso Mayavadin non sarebbe giunto a questa conclusione estrema se non avesse incluso nella purezza della sua esperienza spirituale più elevata gli altri due livelli di percezione. Il secondo di tali livelli, il più basso, è la percezione di Apara Maya o Maya inferiore, di cui ho parlato all'inizio di questo saggio, la percezione del sistema di falsi valori imposti dalle mente e dai sensi ai fatti-simbolo dell'universo. Ad un certo livello di cultura mentale è facile rendersi conto del fatto che i sensi sono guide ingannevoli; tutte le opinioni ed i giudizi mentali sono incerti, parziali e minati dal dubbio; il mondo non è una realtà nel modo in cui la mente lo considera reale, nel modo in cui i sensi dominati e preoccupati solo del valore pratico delle cose, del loro vyavaharika arta, lo ritengono reale. Raggiungendo questo stato la mente arriva a percepire che tutti i valori che attribuisce al mondo sono falsi, forse perché non esiste alcunché di vero in se stesso o alcun vero valore concepibile dalla mente,; da questa idea è semplice per l'impazienza della nostra natura umana giungere affrettatamente alla conclusione che è veramente così e che l'intera esistenza, o per lo meno l'intera esistenza del mondo è illusoria, una sensazione senza alcun fondamento reale, un gioco di zeri. Da ciò nascono il Buddismo, le filosofie agnostiche basate sui sensi e il Mavavada. Nuovamente è facile ad un certo stadio di sviluppo morale percepire che i valori morali imposti dalle emozioni, dalle passioni e dalle aspirazioni alle azioni ed alle esperienze sono falsi valori; è facile sentire che l'oggetto dei nostri peccati è qualcosa per cui non vale la pena di peccare e che i nostri 37 principi ed i nostri valori non hanno impatto e non contribuiscono a scuotere le condizioni effettive del mondo, ma sono solo, essi stessi, meri valori convenzionali che sembrano non influenzare la grande marcia della Natura. Da tali premesse è naturale e corretto giungere a vairagya, il disgusto per una vita di fatta di false percezioni e molto facile affrettarsi, nuovamente per l'impazienza tipica della nostra natura umana imperfetta, al compimento di un vairagya totale: non soltanto insoddisfazione verso una vita morale falsa, ma avversione e disgusto per qualunque tipo di vita e l'affermazione della vanità dell'esistenza terrena. Abbiamo un vairagya mentale, un vairagya morale ed a queste forti motivazioni si aggiunge il genere più potente di tutti, il vairagya spirituale. Ad un certo stadio di educazione spirituale percepiamo il mondo come un sistema di meri valori-coscienza in Parabrahman, o meglio, sperimentiamo, - e questo fu probabilmente l'aspetto decisivo per le menti dei grandi ricercatori spirituali come Shankara -, il puro e splendente Saccidananda impersonale, che sta oltre l'intera esistenza cosmica, apparentemente lontano e completamente distaccato da essa. Osservando intellettualmente questa grande esperienza la conclusione naturale e quasi inevitabile è che questo Uno Puro e Splendente considera l'universo un miraggio, un'irrealtà, un sogno. Ma questi sono solo i termini, i valori convenzionali delle parole e delle idee con cui la mente traduce l'esperienza della trascendenza libera da ogni impatto. La mente dà questa interpretazione perché questi sono i termini che è abituata ad applicare a tutto ciò che la supera, che è lontano da lei e con cui non riesce a stabilire relazioni tangibili. La mente avvinta dalla materia dapprima accetta solamente una realtà oggettiva, chiamando tutto ciò che non può essere oggettivato o non può esprimersi oggettivamente, menzogna, miraggio, sogno, irrealtà o, se disposta favorevolmente, ideale. Quando in seguito corregge il proprio modo di vedere, la prima cosa che fa è rovesciare i propri valori, giungendo in una regione, ad un livello, in cui la vita nel mondo materiale appare remota, priva di spiritualità, o incapace di una realizzazione spirituale; allora immediatamente applica i vecchi termini, sogno, miraggio, menzogna, irrealtà o semplicemente idea priva di verità e trasferisce dalla materia allo spirito il suo modo esclusivo ed intollerante di utilizzare le parole-simbolo della realtà. Aggiungiamo a questa traduzione mentale dell'esperienza della trascendenza le conclusioni intellettuali e la repulsione emotiva tipiche del vairagya mentale e morale, che alterano e sfigurano l'idea del mondo come un sistema di valori-coscienza , ed otteniamo Mayavada. 38 Terza Sezione
 

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